Delocalizzazione, immigrazione… come mai? di Franco Amarella

di Franco Amarella. Un’azienda non ce la fa a mantenere l’organico di personale, troppe tasse, troppi contributi… chiude in Italia, oppure, se può, delocalizza all’estero.

Seguono l’esempio decine e decine di imprese italiane. Lo Stato finora si è stretto nelle spalle, non facendo altro se non ventilare sgravi e… fare auguri alle puerpere. La delocalizzazione è stato ed è il nuovo credo. Anche perché la distrazione imprenditoriale, insieme con la miopia politica di questi ultimi 30/40anni non hanno puntato sull’unica industria italiana mai delocalizzabile: il turismo. Tanto è vero che il turismo in Italia, al di là di quello culturale, è andato crescendo – specialmente nel sud – obbedendo alla legge dei vasi di espansione. Quindi spontaneamente, ovvero per il “troppo pieno” in altre destinazioni.
Ma torniamo al fenomeno della delocalizzazione industriale, per testimoniare un fatto economico di assoluta gravità. Mentre in Italia si tende a non imprendere, orientando le iniziative d’intrapresa fuori dai confini nazionali, perché è più vantaggioso; mentre molto manifatturiero viene fatto svolgere all’estero, perché più conveniente… in Italia s’incentiva l’accoglienza immigrati, perché di questo si tratta, senza tener conto del fattore economico. Fatto gravissimo. Perché non si tratta di accogliere temporaneamente disperazione, fame, o di soccorrere ferite di guerra; bensì si tratta di incamerare in pianta stabile autentiche sacche embrionali di vertenze sociali. A giudicare dai comportamenti e dalle pretese della grandissima parte di tali migranti.
Come mai non si pensa che con le risorse finanziarie che si spendono qui per 1 migrante accolto, si possono mantenere egregiamente 40 persone nei luoghi di loro provenienza, in Africa? Al di là della considerazione morale, etnica, identitaria che vedrebbe queste persone non strappate alle loro abitudini ed alla loro terra, volendo invece considerare le risorse finanziarie italiane impegnate, perchè è accaduto e continua ad accadere (anche se in misura minore) tutto ciò?
Come mai l’Unione Europea si tiene alla larga dalla ricerca concreta di possibili soluzioni nei luoghi di provenienza?
Come mai non ci sono i soldi per incentivare l’imprenditoria italiana a mantenersi in patria ed invece si trovano milioni di euro per l’accoglienza? E soprattutto perché, come detto innanzi, non si valuta che con i soldi impiegati per mantenere 1.000.000 di persone in Italia si potrebbero mantenere 40.000.000 di persone in Africa?
Questi interrogativi non potrebbero essere più maliziosi di così. Giacchè nella stesse domande gravitano le risposte sibilline, tutte a rigor di logica. La nostra Italia continua a registrare povertà crescente e fuga di cervelli. In poche parole mentre si rinsecchisce il proprio tessuto imprenditoriale, è in atto una emorragia di giovani forze vitali, ben scolarizzate e pronte per affrontare le sfide della vita. Tutto ciò non può durare a lungo. Se ne deve rendere conto il Governo italiano, se ne deve render conto l’Europa e forse anche la chiesa e tutte le cosiddette ONG. La giusta, civile, responsabile disponibilità ad accogliere non deve trasformarsi in altro.
L’accoglienza indiscriminata non può debordare nel pericolo di un inevitabile scontro sociale, a fronte di una smisurata ondata di approdi. Che l’Italia si attrezzi ad assicurare dignità ai migranti realmente necessitanti di aiuto e che, attraverso un congruo tetto di accoglienza, possa garantirne la civile convivenza. Assolvere egregiamente al compito umanitario ed altresì contenere oneri e costi è senz’altro possibile. L’Italia però deve solo decidere. Al suo interno ed in Europa.

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