Coronavirus: ne usciremo tutti socialisti? di Francesco Zanotti

di Francesco Zanotti. Lo stato di emergenza in cui il Coronavirus ci ha gettati troverà forse un giorno spazio nei libri di storia, e sicuramente potrà essere analizzato non solo come una tragedia per i territori colpiti e per le persone che hanno perso i propri cari, ma come un vero e proprio stress test che mette alla prova la tenuta delle nostre istituzioni.

Sembra che i maggiori attori pubblici dell’economia, quali sono i governi e le banche centrali, abbiano intenzione di dare davvero seguito a quel whatever it takes che tanto giovò alla popolarità di Draghi, ma dal punto di vista di “free marketeers” forse dovremmo chiederci fino a che punto questo tipo di comportamento delle istituzioni pubbliche sia sostenibile e vantaggioso nel lungo termine.

Come ha osservato la scorsa settimana Daniel Hannan (conservatore inglese dell’ala libertarian) sullo Washington Examiner il rischio che questo tipo di emergenza ci faccia diventare tutti socialisti è molto più vicino di quanto si potrebbe pensare, soprattutto se per socialismo non intendiamo quello dei simboli e delle bandiere rosse ma quello dei metodi statalisti e dell’interventismo statale. Naturalmente questo non significa che chiedere determinati interventi statali sia sintomo di socialismo: da John Locke fino a Ludwig Von Mises il concetto di Stato limitato e Stato minimo ha costituito uno dei cardini del liberalismo classico e poi del libertarismo nella sua visione minarchista (altro è, ad esempio, l’anarcocapitalismo alla Rothbard).

Quello che da un punto di vista liberale sarebbe saggio pretendere in situazioni come queste è un intervento mirato all’arbitro sanitario (sostegno al SSN e alle strutture per la cura dei malati) e alla sicurezza contro il contagio. Altra cosa è quella pericolosa pioggia di microbonus contenuta nel “Cura Italia” (che abbiamo ribattezzato “Cura Alitalia” vista l’improbabile correlazione che i nostri governanti hanno trovato tra emergenza virus e nazionalizzazione di un’azienda decotta) che non solo non contiene interventi significativi a sostegno della nostra economia, ma rischia di aprire la porta un domani a un peggioramento incurabile della situazione.

La risposta liberale a questo tipo di emergenze sta nella temporaneità dei programmi di spesa e nell’intervento mirato al rimborso di quelle attività private che, per provvedimenti governativi, hanno dovuto smettere di lavorare. Il rischio che provvedimenti “straordinari” diventino ordinari e che il sistema delle imprese italiane diventi un domani ancora più dipendente dalla “bontà” dei banchieri centrali è alto.

La “liberalità” di quelli che oggi definiamo “Stati occidentali” è sul banco di prova, non solo per il modo con cui i governi affrontano la pandemia e l’emergenza sanitaria che ne consegue, ma anche per come questi governi saranno capaci di ridurre il proprio intervento una volta che questa situazione sarà giunta al termine.

I fatti degli ultimi giorni in Ungheria hanno colpito perchè vedono coinvolto un leader già discusso e con una storia “istituzionale” quantomeno movimentata, ma nessuno fa notare che in Italia veniamo governati a colpi di DPCM e che il Parlamento, che è il luogo massimo in cui dovrebbe risiedere la sovranità del popolo, è relegato a un ruolo secondario.

Sta avvenendo una pericolosa confusione tra poteri esecutivi e legislativi, e le dittature peggiori, le più subdole, sono quelle che si affermano rivestendosi del manto della sicurezza e della protezione, giustificando atti totalitari come “bene comune” e rendendo impossibile sostenere qualsiasi posizione a loro avversa.

Come nel caso del socialismo, possiamo davvero dire che la strada verso la dittatura è lastricata di buone intenzioni.

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