Capaci di ricordare.

di Salvatore Falzone. Sono passati 25 anni, un quarto di secolo, dalla strage che il 23 maggio del ’92 uccise Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini di scorta, Vito Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani. Una strage che avveniva mentre il Parlamento era riunito in seduta comune, con ritardi e veti incrociati e franchi tiratori, per l’elezione del Capo dello Stato dopo le dimissioni anticipate del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Falcone insieme alla moglie era giunto a Palermo proveniente da Roma tramite un volo che in teoria doveva rimanere coperto dal segreto, ma che in pratica fu l’inizio dell’operazione terroristica-mafiosa. Una grande esplosione, un’autostrada sventrata, un’azione di guerra avrebbe portato alla fine del giudice italiano che molti in Europa e in America ammiravano, mentre in Italia dava fastidio per le sue indagini e soprattutto perché aveva capito cosa era realmente la mafia e da dove traeva forza. Non era la prima volta che la mafia ricorreva a sistemi di eliminazione mediante il terrorismo, ovvero ingaggiando uno scontro asimmetrico, fuori dalle regole. La strage di via Pipitone Federico, del 29 luglio 1983, nella quale fu ucciso il consigliere Rocco Chinnici e gli uomini della scorta e il portiere del palazzo, era stata pianificata con una tecnica simile. All’epoca, a Palermo, si parlava di “libanizzazione” ovvero ricorrere a sistemi assai violenti mediante bombe, autobombe, ad alto potenziale per distruggere chi combatteva la mafia. Tecnica usata durante la guerra civile libanese: Palermo come Beirut. Così come la strage di Pizzolungo, avvenuta a Trapani il 2 aprile contro il giudice Carlo Palermo, – impegnato in delicate indagini vertenti sul traffico internazionale di armi – che vide la morte di una famiglia innocente: Barbara Rizzo con i suoi figli Salvatore e Giuseppe d’Asta. Per non parlare dell’utilizzo di armi da guerra nei vari delitti ed eccidi. Solitamente per la strage di Capaci si parla di vendetta di Cosa Nostra per le condanne del maxi processo confermate in Cassazione, tuttavia il solo movente classico mafioso non regge. Nel giugno dell’88 all’Addaura avvenne il primo attentato, fortunatamente scoperto e fatto fallire in tempo da due servitori dello stato Emanuele Piazza e Antonino Agostino, entrambi poi uccisi dalla mafia. In quell’occasione il giudice Falcone parlò di “menti raffinate, raffinatissime” e di “centri di potere occulti”. Era evidente che il giudice Falcone aveva capito, già da tempo, quell’intreccio tra mafia, politica e finanza. Non è un caso che ancora oggi, nonostante i tanti misteri, le tante zone d’ombra, le indagini vertono sulle collusioni tra servizi deviati e mafia, tra pezzi dello Stato e criminalità. E’ opportuno ricordare che uno dei primi patti tra la mafia siciliana e i potenti di turno avvenne poco prima dello sbarco degli alleati del ’43, quando il generale Eisenhower incontrò ad Algeri, il generale Castellano e il sotto-tenete Guarrasi, all’incontro gli americani vollero anche i boss siculo-americani. Il tutto si risolse con il patto per la totale garanzia di impunità, anzi di immunità per molti mafiosi, si parla tra i cinquecento e i novecento. Da lì parte la saldatura tra mafia e pezzi deviati dello Stato, utilizzata anche per scopi politici. L’anno orribile del 92-93 ha segnato profondamente l’Italia. Ancora oggi, oltre il ricordo, è giusto attivare per contrastare il fenomeno tutte le forze dello Stato di diritto e della società civile.

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