Belt & Road Initiative e la trappola del debito. Un filo di Arianna tra Cooperazione e Neo-colonialismo.

di Alberto Gandossi. Si chiama “One Belt, One Road”, ovvero Belt & Road Initiative abbreviato “BRI”,  il progetto cinese di una Via della Seta in chiave contemporanea destinata a collegare l’Asia all’Europa e all’Africa, ma soprattutto a mettere la Cina moderna al centro dei traffici. Il progetto, annunciato nel 2013 dal presidente cinese Xi Jinping potremmo definirlo un vero e proprio bazooka: 65 Paesi coinvolti, 65% della popolazione interessata e investimenti infrastrutturali in quasi ogni angolo del pianeta di circa 1.000 miliardi di dollari. Nel 2014 Pechino ha inoltre lanciato il Silk Road Fund (China Investment Corporation-Export and Import Bank-China Development Bank), un fondo da 40 miliardi volto ad attrarre investimenti esteri.

Fonte: The Economist

Questo progetto, di fatto, si è tradotto in una rete di collegamenti infrastrutturali (strade, porti, ferrovie, aeroporti, impianti per la produzione e distribuzione di energia e sistemi di comunicazione), marittimi e terrestri, basata su due pilastri: uno continentale, dalla parte occidentale della Cina all’Europa del Nord attraverso l’Asia Centrale e il Medio Oriente, e l’altro marittimo, passando anche per l’Oceano Indiano.

Uno dei continenti che riceverà maggiori investimenti è sicuramente l’Africa. Dal 2009 la Cina è il primo partner commerciale dell’Africa. Tra il 2013 al 2018 l’interscambio Cina-Africa ha raggiunto un valore di 185 miliardi di dollari. Secondo un rapporto del 2017 della McKinsey, l’Africa ospita circa 10 mila aziende cinesi. Nel giugno 2017 è stata inaugurata la “Madaraka Express”, ferrovia che unisce Nairobi a Mombasa. Infrastruttura di quasi 3.000 chilometri che collega Kenya, Uganda, Tanzania, Rwanda, Burundi, Etiopia e Sud Sudan. Nei prossimi anni il peso della Cina in Africa è destinato a crescere. Le ambizioni cinesi sono impressionanti per la loro portata economica, politica e geografica.

Secondo alcuni esperti infatti, la BRI è il più grande progetto di diplomazia economica dai tempi del Piano Marshall. Secondo altri è lo strumento di un nuovo espansionismo cinese. Stephen Chan, professore di Politica e Relazioni Internazionali alla SOAS di Londra ha dichiarato che “il vero nodo è l’enorme debito estero accumulato dai governi africani che non riusciranno a ripagare. È sul debito e la creazione d’infrastrutture che la Cina ha generato dipendenza economica su cui fare leva per i suoi interessi”. Al momento il debito dell’Africa con la Cina è di 148 miliardi di dollari.

La cancellazione o la rinegoziazione del debito annunciata lo scorso giugno dal presidente cinese comporterà, sempre secondo Chan, una contropartita per le sue esportazioni cinesi in Africa. La tanto osteggiata Huawei sta già crescendo fino a diventare il più grande fornitore di cellulari e di sistemi del continente dove c’è alta richiesta di tecnologia.

Vari studi hanno inoltre mostrato che oltre il 90% dei lavori viene affidato ad aziende cinesi, per lo più colossi di Stato. Cosa potrebbe nascondersi dietro tutto questo?. La cosiddetta trappola del debito. I prestiti, come noto, si devono restituire con gli interessi. Vari Paesi coinvolti nella Via della Seta hanno contratto livelli di debito insostenibili, finendo per dover concedere alla Cina lo sfruttamento delle proprie infrastrutture e di parti del proprio territorio. Maxin Pei, esperto di governance nella Repubblica Popolare Cinese, relazioni USA-Asia e democratizzazione nei Paesi in via di sviluppo, ha recentemente evidenziato che alcuni governi hanno chiesto di rinegoziare gli accordi presi. Alcuni esempi: il governo della Malesia che ha cancellato due mega progetti BRI, inclusa una linea ferroviaria da 20 miliardi di dollari; il governo pakistano che ha avviato una revisione di uno dei progetti di punta della BRI, il Corridoio Economico Cina-Pakistan, cui la Cina aveva destinato un finanziamento da 60 miliardi di dollari; il governo del Myanar che ha comunicato a quello di Pechino di aver sospeso la costruzione di una maxi diga e di una centrale idroelettrica e il governo delle Maldive che sta cercando di rinegoziare il debito di 3 miliardi di dollari, equivalente a due terzi del loro Pil, derivante dai prestiti concessi dalla Cina per finanziare progetti BRI.

La stessa sorte è capitata al vecchio continente. La Grecia occupa uno spazio strategico nel Mediterraneo orientale e ha una delle più grandi flotte mercantili del mondo e Pechino lo sa bene. Mantenere stretti legami con Atene è fondamentale. Nel 2016, l’azienda cinese China Ocean Shipping Company (Cosco) ha acquisito il 51% del porto greco del Pireo; ciò significa che uno dei porti più importanti del Mediterraneo è controllato da una compagine che riferisce direttamente al governo di Pechino. Oggi con oltre 10.000 posti di lavoro creati il Piero è uno dei terminal container che registra la più rapida crescita al mondo. Inoltre, La Bank of China (Europa) sta aprendo una filiale ad Atene, mentre la consociata lussemburghese della Industrial & Commercial Bank of China (ICBC) sta aprendo un ufficio di rappresentanza in Grecia.

L’esercizio del “soft power” cinese non finisce qui: sempre nel 2016, la Grecia votò contro 2 mozioni in commissione di sicurezza ONU: una sulla richiesta di aprire un’indagine nei confronti della Cina per la sua espansione nel Mar Cinese Meridionale e l’altra contro per la volontà di ammonire la Cina per sfruttamento di bambini nelle miniere africane.

Le cifre da capogiro della BRI mostrano quindi i primi segni di fragilità. Infatti, se è vero che Paesi a corto di capitali riescono a costruire infrastrutture che altrimenti non potrebbero finanziare grazie ai prestiti cinesi, è altrettanto vero che la Via della Seta è prima di tutto un progetto con cui la Cina cerca di dare sfogo alla sua sovraccapacità produttiva interna.

Un vero e proprio filo di Arianna tra cooperazione e neo-colonialismo che si basa su una relazione bilaterale tra la Cina e il proprio partner. Chissà se con la frase “America is back” pronunciata da Joe Biden, quello che sembrava essere un multilateralismo caratterizzato da partnership interregionali, torni ad essere linfa per accordi economico-sociali tra Stati. L’Europa non può stare a guardare. Non possiamo più pensare che basti essere la più longeva operazione di Pace nella storia dell’uomo. Una guerra bellica non si deve trasformare in una guerra economica per la supremazia di un Paese.

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